Piccoli mostri crescono…


1.

Nella recensione del saggio di Simmel sulla moda ho riportato, tra le altre, le seguenti citazioni:

"La moda è imitazione di un modello dato e appaga il bisogno di appoggio sociale, conduce il singolo sulla via che tutti percorrono, dà un universale che fa del comportamento di ogni singolo un mero esempio. Nondimeno appaga il bisogno di diversità, la tendenza alla differenziazione, al cambiamento, al distinguersi. Se da un lato questo risultato le è possibile con il cambiamento dei contenuti che caratterizza in modo individuale la moda di oggi nei confronti di quella di ieri e di quella di domani, la ragione fondamentale della sua efficacia è che le mode sono sempre mode di classe, che le mode della classe più elevata si distinguono da quella della classe inferiore e vengono abbandonate nel momento in cui quest'ultima comincia a farle proprie. Così la moda non è altro che una delle tante forme di vita con le quali la tendenza all'uguaglianza sociale e quella alla differenziazione individuale e alla variazione si congiungono in un fare unitario." (pp. 16-17)

"La moda significa da un lato coesione di quanti si trovano allo stesso livello sociale, unità di una cerchia sociale da essa caratterizzata, dall'altra chiusura di questo gruppo nei confronti dei gradi sociali inferiori e loro caratterizzazione mediante la non appartenenza ad esso." (p. 17)

"A volte sono di moda cose così brutte e sgradevoli che sembra che la moda voglia dimostrare il suo potere facendoci portare quanto c'è di più detestabile; proprio la casualità con la quale una volta impone l'utile, un'altra l'assurdo, una terza ciò che è del tutto indifferente dal punto di vista pratico e da quello estetico, dimostra la sua completa noncuranza delle norme oggettive della vita e rinvia ad altre motivazioni, cioè a quelle tipicamente sociali che sole rimangono." (p. 18)

"Se le forme sociali, i vestiti, i giudizi estetici, tutto lo stile in cui l'uomo si esprime, si trasformano continuamente attraverso la moda, allora la moda, cioè la nuova moda, appartiene soltanto alle classi sociali superiori. Non appena le classi inferiori cominciano ad appropriarsene superando i confini imposti dalle classi superiori e spezzando l'unità della loro reciproca appartenenza così simbolizzata, le classi superiori si volgono da questa moda ad un'altra, con la quale si differenziano nuovamente dalle grandi masse e il gioco può ricominciare. Le classi inferiori infatti guardano in alto e aspirano ad elevarsi. Questo è loro possibile soprattutto nell'ambito della moda in quanto è il più accessibile ad un'imitazione esteriore… L'imporsi dell'economia monetaria deve accelerare in modo rilevante questo processo e renderlo visibile, perché gli oggetti della moda, in quanto esteriorità della vita, sono particolarmente accessibili al puro possesso del denaro. In rapporto ad essi è più facile raggiungere la parità con lo strato superiore che in tutti gli altri campi che richiedono un impiego di capacità individuali non acquistabili con il denaro." (pp. 21-22)

Si tratta di riflessioni che, ancora oggi, conservano tutto il loro valore, e dalle quali è giusto partire per affrontare uno sviluppo, per ora indiziario, del sistema sociale in una direzione che è lecito definire inquietante: la cooptazione nel sistema della moda dell’infanzia e della preadolescenza.

La tendenza ad abbigliare i bambini in maniera tale da esibire o simulare la loro appartenenza ad una classe superiore non è nuova nel nostro mondo. Essa si può fare risalire al boom degli anni ’60, che ha prodotto un moto sociale ascensionale che, nel corso del tempo, si è potenziato. Ricordo en passant che, nei primi anni ’70, allorché ebbi i miei due figli, mi capitò una o due volte di entrare in un negozio che faceva parte del circuito Pre-maman, rimanendone letteralmente inorridito. Oltre al costo esorbitante, gran parte dei capi di abbigliamento esposti erano caratterizzati da un quid – tessuti, colori, modelli, ecc. - che non aveva alcun rapporto con la funzionalità ma era chiaramente rivolto a soddisfare le esigenze narcisistiche dei genitori.

All’epoca, comunque, bambini griffati se ne vedevano pochi, tranne che in circostanze particolari quali comunioni, feste di compleanno, adunate parentali, ecc. Si trattava, in genere, di bambini piccoli che non potevano opporsi allo sciagurato potere genitoriale.

Successivamente, la prima e la seconda infanzia sono state cooptate nel sistema del consumismo, ma soprattutto in riferimento ai cibi, ai giocattoli, ai DVD. L’abbigliamento ha giocato un ruolo marginale. Questo non significa che i negozi di baby-fashion non siano proliferati negli ultimi anni, offrendo prodotti sempre più sofisticati e costosi. Tranne che per aspetti sostanzialmente marginali - lo zainetto, le scarpe da ginnastica, ecc. – l’offerta è però rimasta rivolta ai genitori, sollecitando il loro narcisismo.

Qualcuno, però, sta programmando un “salto di qualità” a riguardo. L’indizio cui ho fatto cenno l’ho ricavato da la Repubblica delle donne (supplemento settimanale del quotidiano) del 1 settembre 2007. Dato che non sono un lettore abituale di questo supplemento né di riviste di moda, ho chiesto, ottenendola, conferma ad alcune amiche della fondatezza della mia intuizione e dello sconcerto prodotto dallo sfogliare la rivista.

Lo sconcerto è documentato dalle fotografie che riproduco, che sono meno della metà di quelle di cui la rivista è disseminata.


           

           

           

 

Se sussiste qualche dubbio riguardo al fatto che le agenzie pubblicitarie, quando identificano un obbiettivo di mercato significativo, adottano all’unisono strategie convergenti, le fotografie sono destinate a dissolverlo. Non è un caso che Dior, Miss Blumarine, Guess, Siviglia, Fay Junior, Ice Ice, RaRe The Kid, Roberto Cavalli, Burberry, NorthSails, LIU.JO, Add Junior, Alviero Martini, Miss Grant, Sarabanda, Freddy, Sweet Years, GAS, Monnalisa, Simonetta, LU-MA’! pubblichino contemporaneamente i loro modelli per bambini e ragazzi dai sei ai dodici anni, che li indossano con apparente disinvoltura. Si tratta, a ben vedere, di un festival dell’orrore e del kitsch.

Si può facilmente argomentare questo giudizio tenendo conto di tre aspetti semiotici. Per un verso, infatti, gli abiti tendono a corroborare il mito dell’innocenza infantile (che, com’è noto, è dovuta alla persistenza anatomica di aspetti neotenici: il grande volume della testa rispetto al corpo, la grandezza degli occhi, gli arti piccoli, ecc.). Per un altro verso, essi, soprattutto per quanto concerne le bambine, valorizzano quanto c’è di ambiguo in una falsa innocenza che sembra già contenere un potenziale erotico: evocano, insomma, il fantasma delle lolite. Il terzo aspetto, il più inquietante, è la trasformazione dei bambini in piccoli adulti che sembrano già orientati a ricoprire i ruoli privilegiati dalla classe media (manager, liberi professionisti, donne in carriera, attrici o – al limite – veline).

2.

Tutto ciò sarebbe già di per sé preoccupante perché, inconsapevolmente, attesta una pressione adultomorfa che investe la condizione infantile, al di sotto della quale è del tutto evidente il rifiuto fobico della sua specificità, riconducibile al rilievo psicologico delle emozioni e della fantasia che inibisce in una certa misura l’interesse per le forme esteriori e argina la cattura che l’universo percettivo esercita sulla mente umana.

Che i bambini siano animati, al tempo stesso, dall’attaccamento al loro mondo e dal desiderio di crescere e di diventare come i grandi è un dato di fatto della loro esperienza, costantemente sottesa da una spinta regressiva e una evolutiva.

Le fotografie sembrano univocamente orientate a potenziare il desiderio di crescere e di diventare come i grandi: maschere capaci di volta in volta di simulare la padronanza di sé, la compostezza, l’originalità, la spigliatezza, la disinvoltura, la maliziosità, ecc.

L’aspetto in assoluto più preoccupante, però, è un altro. Se ci si chiede, infatti, chi è il referente dei messaggi pubblicitari, la risposta non è scontata come potrebbe apparire. Se, infatti, è indubbio che il referente sono i genitori nella misura in cui l’acquisto degli abiti pone in gioco la loro disponibilità economica, sarebbe ingenuo non considerare che quei messaggi sembrano manifestamente orientati a colpire l’immaginario infantile, soprattutto per quanto riguarda la fascia d’età dai 9 ai 12 anni, inducendo lo sviluppo di un’identificazione il cui risvolto pratico sarebbe l’espressione di un bisogno di consumo.

Quali elementi possono confortare un’ipotesi del genere dato che la rivista in questione è indirizzata e fruita da un pubblico adulto? Un elemento potrebbe essere ricavato dalla proporzione delle proposte tra bambine e bambini, che è di tre a uno. E’ noto, infatti, che, in conseguenza delle sollecitazioni mediatiche, le ragazzine, a partire dai nove anni in poi, subiscono una forte pressione nella direzione della crescita e dell’identificazione con un modello femminile adulto, la cui spia è la progressiva anticipazione del menarca. Tale pressione si traduce nello sfogliare sempre più spesso le riviste di moda della madre.

Un ulteriore elemento è previsionale. Se l’ipotesi è vera, la campagna di cooptazione della seconda infanzia nel sistema della moda, avviatasi con questo profluvio di immagini pubblicitarie, è destinata ad estendersi. Tra poco presumo che le immagini di bambini griffati occuperanno i cartelloni di cui sono tappezzate le città.

C’è da chiedersi, ora, perché l’indizio analizzato debba ritenersi tanto preoccupante. Se fosse vivo Barthes, quello che con i Miti di oggi ha scritto un piccolo capolavoro di semiotica sociologica, potrebbe spiegarlo senz’altro in maniera più suggestiva di quanto io sia in grado di fare. Tenterò di fare del mio meglio.

L’antropologia culturale, la sociologia, la semiotica, la psicoanalisi stessa hanno dedicato molta attenzione all’abbigliamento: un fatto culturale complesso le cui origini non possono essere ricondotte ad un’unica esigenza funzionale (protezione dal freddo nei paesi nordici o temperati, protezione dagli insetti in quelli caldi ecc.). Anche presso le popolazioni più primitive, l’abbigliamento, con i suoi accessori, ha molteplici valenze significante: in altri termini, al di là del sopperire alle carenze fisiologiche dell’uomo, esso comunica qualcosa che inerisce l’appartenenza ad un’etnia e ad una cultura, lo status sociale, il ruolo pubblico (divise, toghe, ecc.) o privato, l’identità sessuale, ecc.

La storia sociale della civiltà occidentale si può ricostruire agevolmente attraverso i cambiamenti avvenuti a livello di abbigliamento. Fino all’avvento della borghesia, lo sfarzo nobiliare distingueva la classe dei privilegiati da tutte le altre, impegnate nel lavoro e quindi costrette ad indossare abiti in grande misura atti ad agevolarlo. L’avvento della borghesia contrassegna un’autentica rivoluzione. Lo sfarzo, infatti, è sostituito dal decoro, da una certa gravità della foggia, dall’abbandono dei colori vivaci a favore di quelli “seri” (blu, grigio). Il modello borghese è esplicitamente maschilista. Alle donne appartenenti alla nuova classe si concede qualche cedimento alla vanità, ma entro limiti definiti che escludono apparentemente ogni volgarità.

Il cambiamento dell’abbigliamento sancisce un nuovo ordine sociale: la borghesia, infatti, si contrappone al lusso nobiliare, ma al tempo stesso crea una distanza apparentemente incolmabile rispetto alle classi proletarie (operai, contadini, ecc.) i cui abiti sono raffazzonati e logori.

Verso la fine dell’Ottocento – il secolo della borghesia – l’abbigliamento tende a mutare. L’alta borghesia, i cui redditi sono straordinari, si orienta nuovamente verso il lusso, i cui canoni sono dettati dai sarti parigini.

Nel corso del Novecento, il miglioramento progressivo del tenore di vita delle classi proletarie, ma anche un’irresistibile aspirazione all’imitazione dello stile di vita borghese, fa sì che l’abbigliamento proprio della classe ormai egemone si diffonde progressivamente presso tutte le classi sociali. Dalla metà del Novecento in poi, tale moto è progressivo e tale per cui, in un giorno di festa, con l’abito buono e la macchia a rate una qualunque famiglia operaia è indistinguibile (quasi) da una borghese.

Che questa “confusione” dovesse rilanciare un’ulteriore differenziazione era scontato. E’ questo obbiettivo che segna la nascita degli stilisti e della moda. Questa ha due caratteristiche che la destinano a mantenere a tempo indeterminato la differenziazione sociale: l’uso di materiali e tessuti pregiati, ad alto costo, e una spiccata tendenza alla volatilità, per cui la moda diventa stagionale.

Entrambe queste caratteristiche non sono però irrimediabili per le classi meno abbienti. Tessuti e materiali pregiati possono, infatti, essere sostituiti da altri, meno pregiati ma simili. I dettami degli stilisti, almeno in una certa misura, possono essere imitati.

Il problema della differenziazione diventa drammatico. Ci sono solo due modi per affrontarlo: accentuando il lusso ma soprattutto l’originalità (fino al limite della bizzarria) dei capi di abbigliamento, tale per cui essi non possono essere utilizzati nel contesto della vita quotidiana, ma solo in ambiti sociali esclusivi; articolando un modello che non è più vincolato al ruolo (l’abito blu, il tailleur), ma comporta la sua ibridazione sul piano della “sportività”, dell’uso del tempo libero, ecc. In virtù di questa ibridazione, per esempio, lo stesso manager che si presenta impeccabilmente vestito al Consiglio di amministrazione ama, poi, farsi fotografare sulla barca, in vacanza, mentre fa shopping esibendo un guardaroba raffinatamente casual.

3.

Qual è il rapporto tra questa digressione e il dato di partenza?

Ci si arriva facilmente considerando che quanto detto in precedenza significa che la classe borghese (almeno l’alta borghesia) pretende ormai di apparire come quella che ha trovato la formula vincente del vivere in virtù della serietà lavorativa e dell’abbandono all’edonismo: sarebbe dunque la classe che produce e si gode la vita.

Chiunque ha una conoscenza minima della realtà, sa che le cose non stanno così. Se c’è un tratto tipico della borghesia contemporanea è la compulsione, orientata per un verso a fare soldi e per un altro a compensare con varie forme di trasgressione (dalla cocaina alla perversione sessuale) l’ossessione lavorativa.

Su questo sfondo, le fotografie che ho riprodotto, per quanto mostruose perché calano bambini ragazzi nel ruolo di piccoli adulti, rappresentano la proiezione di un desiderio: la realizzazione immaginaria di uno stato caratterizzato per un verso da un’estrema serenità e compostezza, e, per un altro, dalla spigliatezza, dalla disinvoltura, dall’originalità e dalla gioia di vivere.

A che serve questa mistificazione? A contrassegnare ancora una volta una differenziazione tra chi può e chi non può, ma nondimeno a sollecitare chi non può ad aspirare ad un modello che sembra promettere la felicità.

L’abito non fa il monaco – si dice. Ma non è neppure in grado di restaurare l’atmosfera della fine dell’Ottocento, quando la borghesia sembrava avviata a conquistare il mondo.

E’ ben nota la tragedia sopravvenuta dopo quell’euforia. Sperando che la cosa non si ripeta, per ora c’è da riflettere sul fatto che i bambini e i ragazzi vengono utilizzati come testimonial (patetici) di una mistificazione.